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Su una mensola dal 1961

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Lui trent'anni, un lavoro sicuro, di
quelli che non esistono più. Lei una donna dallo sguardo buono accoccolata su una
povera poltrona spelacchiata, a rammendare calzini e mutande.

Alle cinque e mezza di ogni sera di tutti i mesi di tutti gli anni da quando
vennero a vivere in questa casa, lui arrivava su, due scalini per volta, a
bussare due volte più una. Io dal piano di sotto sentivo lei ciabattare fino
alla porta. Silenzio. Poi l'acqua del bagno. Due parole, che non sono mai
riuscito a capire. Forse sempre le stesse. Poi qui sopra, esattamente sopra a
me, il rumore dell'altra poltrona cedere sotto il peso dell'uomo.

Lei che lo raggiungeva e parlottavano con lunghe pause.

Queste erano le due persone che abitavano sopra casa mia. Io avrò avuto quattro
o cinque anni. A quell'età ci senti bene, e le cose ripetitive ti fanno quasi
compagnia. Vivevo con la mia fantasia le scene del piano del sopra, e mi parevano
bellissime, sublimi. Molto più belle di quelle che vivevo io.



Il problema non era la casa, e non ero nemmeno io. Ma questo
lo avrei capito molti anni più tardi.



I fogli cadevano dal calendario inesorabili e i signori “M”
del piano di sopra, coppia senza bambini, silenziosa e apparentemente serena,
viaggiavano nel loro moto rettilineo uniforme che solcava gli anni sessanta, fino a un giorno, che senza sussulti, li portò negli anni settanta.



Io cominciavo ad essere sempre meno  a casa, e non seguivo più le “scene
acustiche” del piano di sopra. Ma sapevo che quelle due macchine perpetue del
piano di sopra solcavano i tempi come le prue di due navi parallele. Arrivarono
gli anni ottanta e andai ad abitare da un'altra parte.



Quando tornavo a casa di papà (mamma era morta presto) nelle
pause tendevo ancora l’orecchio verso il piano di sopra. Ma le ore non erano
quelle giuste e non si sentiva nulla.



Ricordo che verso ora di cena arrivava sempre un mugolio
sommesso musicale. Mai capito se fosse lui o lei ad ascoltare quelle musiche.
Forse tutti e due.  Erano musiche varie, arie
di operetta, qualcosa di musica leggera. Forse anche Bacharach. O forse ero io
ad immaginarmi Bacharach a fare da cornice a tanta pianeggiante tranquillità.



Arrivarono gli anni novanta e quelle rare volte che andavamo a
trovare papà con tutta la mia famigliola, 
sentivo rumori nuovi da lassù. Ma papà mi rassicurò dicendo che loro
erano sempre là, da soli, ad abitare al piano di sopra. Solo che lui era ormai
in pensione e lei ci vedeva poco.



I miei figli diventavano grandi, e arrivavano gli anni
strani, quelli brutti, quelli che obbligano a fare i conti col tempo.
Arrivarono gli anni duemila. Sfrecciarono come dei rapinatori ispanici sulle
strade di Los Angeles, leggeri e veloci, ignoranti e insolenti.    

-continua-




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